giovedì 27 novembre 2014

La borella, il gioco tradizionale dei contadini veneti. (Province di Treviso, Padova, Venezia)

 - Antichi giochi italiani // Giochi antichi, giochi tradizionali: Veneto 
di Camillo Pavan


La borella (borea, burea, boreèra) era il gioco contadino per eccellenza, sia per il materiale (legno di acero campestre  - ópio - un tempo diffusissimo nelle siepi e come sostegno per le viti) sia per la terminologia usati, sia anche per i luoghi - nei cortili delle case di campagna o tra i filari delle viti (oltre che, ovviamente, all’osteria) - in cui era praticato.
La borella si giocava con una grossa boccia di ópio (pesante da 500 grammi a due kg e oltre, in base alla lunghezza della pedana e alle esigenze e all'abilità del giocatore) e tre birilli in legno, alti circa 70 cm, chiamati sóni. Bisognava colpire al volo i tre birilli messi in fila. "Sono ritenuti borellisti di classe gli specialisti nel gambarèl e nei San Martin, ossia nel colpire rispettivamente due sòni o tutti e tre". (Giorgio Garatti, Sports e giochi nella Marca Trevigiana, Treviso, 1966, p. 331).
Non può sfuggire come il San Martin richiami alla mente la data della scadenza del contratto d’affitto dei contadini, l’11 novembre, che molto spesso corrispondeva allo sfratto dalla canpagna. Tipica è anche l’espressione xe sta un San Martin, per indicare che tutto è stato rovinato, buttato per terra, distrutto, dopo una grandinata. Far San Martin a borella era quindi un esorcizzare tali drammatici frangenti.
Sull’antichità della diffusione della borella nelle nostre campagne, e non solo, ecco alcune testimonianze.
Durante la visita pastorale del 1592 un fabbriciere di Casier, interrogato sul comportamento del parroco Giacomo Antonelli, dichiarava: «… questo nostro prete zuoga a carte, e ogni zuogo pubblicamente con gran scandalo del populo, et anco l’havemo ripreso; l’ho visto anco zugar alla borella … ». (Giuseppe De Pieri, Casier e Dosson, ieri e oggi, II ed., Tipogr. Arcari, Mogliano V.to 1977, p. 17).

Pur essendo la borella un gioco prevalentemente contadino, non per questo era disdegnato dai residenti in città. Tanto che Marco Zen, podestà e capitano di Treviso, nell’estate del 1782, accogliendo i reclami del rettore del seminario vescovile, pubblica e fa affiggere ai muri esterni dell’istituto un proclama - tuttora visibile sotto i portici dell’attuale via Manzoni all'altezza del civico 17 - in base al quale «si fa (…) pubblicamente intendere e sapere che alcuno di qualsivoglia grado e condizione egli sia non debba farsi lecito in qualunque tempo ed ora di giorno di notte radunarsi in dette calli conterminanti e che circondano detto seminario a giocare alla palla, pallone, borelle né altri giochi restando proibita ogni radunanza che porti seco sconvolgimento, strepito sussurro e scandalo (…)»

Divieto di giocare a borella: iscrizione del 1782 a Treviso, 
via Manzoni.  (Foto del 30 marzo 1988)
Gli stessi nobili, a volte, sapevano apprezzare il rustico gioco. Risulta infatti che il barone di origine toscana Raimondo Franchetti fece costruire nella sua villa sul Terraglio (acquistata nel 1873) un gioco [cioè una struttura per il gioco] della borella, al coperto, che nell'inventario effettuato alla sua morte nel 1905, risultò fornito di "diversi tavolini, divani e sedie".
Adriano Favaro, Isabella Teotochi Albrizzi: la vita, gli amori, i viaggi. Con la guida alla visita della villa Albrizzi-Franchetti, 2006, (pagine 100-101 del dattiloscritto originale scaricabile).

Torniamo comunque ai nostri contadini. 
Il 5 agosto del 1808 un funzionario della prefettura di Treviso non trova «argomento per soggiungere parere contrario all’istanza» presentata «da Giuseppe Nicoletto della Comune di Paese Chiedente licenza d’istituire un giuoco di borella entro il circuito d’una Melonera [campo dedicato alla coltivazione di meloni e/o angurie] di sua ragione, da verificarsi nei giorni festivi terminate le funzioni di chiesa»(Segnalazione di Giovanni Netto, 1-12-1986, da un documento dell’Archivio di Stato di Treviso, appartenente a un fondo all'epoca in fase di catalogazione).
L’11 marzo 1849 un drappello di gendarmi del “Distaccamento di Guardie d’Ordine Pubblico” di Mogliano Veneto, agli ordini di Giuseppe Furlanetto, è in perlustrazione nelle campagne di Canizzano per reprimere le numerose rivendite abusive di vino. Alle cinque del pomeriggio, dopo aver visitato senza esito le case dei “sospetti” Pietro Artuso e Antonia Dozzo, si avvicina alla casa di Tomaso Sisto. Qui, «mentre alcuni individui si danno alla fuga», le guardie scorgono dei contadini intenti a «un gioco così detto di Borella nel campo di Giuseppe Grespan poco distante dal Sisto (…) e si ritiene che il Sisto stesso gli vendesse il vino». (Archivio di Stato Treviso, Comunale, b. 2826, fasc. Arti e commercio). 
Per finire questa breve carrellata, sempre nel 1849, viene stigmatizzato dalle autorità locali il comportamento di un contadino di Caravaggio - zona Valdobbiadene - nella cui cucina «trovavasi molti individui che stavano bevendo ed altri nel cortile che giocavano alle burelle», il tutto, ovviamente, senza la prescritta licenza. (Giancarlo Follador,  Le stagioni del vinoValdobbiadene 1988, p. 47).
Nota - L'incipit e parte di questo post sulla storia della borella è stato pubblicato nel 1986 nell'edizione a stampa di Drio el Sil, in una lunga nota alle pp. 110-111.



                                                             

Link ad altri articoli e post sul gioco della borella


Sull'argomento vedi anche 

- Due articoli di Pavan su "Scritti per YouTube" 2009 (con foto di Luigino Smaniotto e una poesia di Cafè Nero - Gino Tomaselli) 
- La rievocazione del gioco (con dettagliata spiegazione delle sue caratteristiche tecniche) voluta da Pavan e organizzata da Lino Rossi nel settembre del 2013 presso il suo agriturismo Al Sile, a Santa Cristina di Quinto (TV).

                                                            


Un paio di citazioni 
(che mettono in risalto la vigoria necessaria per praticare questo gioco)

«Il nomignolo di Cencio Batibàe gli era stato affibbiato (così dicevano i vecchi del tempo) molti anni addietro, quando, ancor giovane, andava per le osterie di campagna dove si giocava la borella; lì faceva la sua bella sosta anche per delle ore a ributtare ai giocatori de campagna dal brasso de fero le palle di legno lanciate dagli stessi contro i birilli». (In gergo tecnico Cencio faceva el borein).
Bepi Stocco, Gente delle calli. Vagabondi, ambulanti, imbonitori e prostitute nel borgo di San Nicolò a Treviso, a cura e con in saggio di Livio Fantina, Cierre Verona, 2000, pagine 138-39.

«In via Padova, dietro a quello che sarebbe stato il Kacianka c'era un fabbricato lungo e stretto ed era la pista da "borella", sorta di gioco con le bocce riservato a omaccioni forti in grado di lanciare pesanti palle di legno che dovevano far cadere alcuni grandi birilli disposti in linea ... figura indispensabile era il "bocia" che raccoglieva i birilli e riportava le palle ai giocatori garantendosi mance e gelato». 
Gabriele, "Passatempi d'epoca", Pagina Facebook Scorzè Scorzadis - Storia e Memoria. (URL consultato l'11.11.2010)

Sulla presenza della borella nel Veneziano

- Paolo Berati, "Bowling su prato made in Mira" in Rive: uomini, arte, natura, n. 6 - 2008, pag. 34. (Molto preciso e con belle foto)
- Aldo Ghioldi segnala una borèa anche nell'immediata periferia di Mestre, zona Cipressina nella «osteria detta "da Goea" gestita da Longo "Gegia" dal figlio Longo Giacomo e dalla moglie Favaron Adalgisa "Cisa"». (URL consultato il 15.11.2014)

Sulla presenza della borella nel Padovano

Giochi per bimbi: la Borella "Borea", nel sito della Gibus di Saccolongo (PD). (Bello il testo, ma foto del tutto fuori tema - URL consultato il 15.11.2014 e non più attivo il 19.8.2023)


Sulla presenza della borella nel Trevigiano

Oltre che dal "pioniere" Giorgio Garatti, il gioco della borella è ricordato da:
- Riccardo Masini in Istrana, Paese mio (quattro edizioni fra il 1987 e il 1995).
- Adriano Favaro in Ostarie de Marca, 2001, da cui sono tratte le due foto di Giuseppe Bruno qui riprodotte.
- Erika Pavan, Zoghi de 'na volta: divertimenti e giochi al tempo dei nonni, Pro Loco e Comune di Morgano - Istresco, 2011, con la testimonianza di Antonio Pozzebon, 1947, sulla sua esperienza come boreín nell'osteria da Badàro e in altre nella zona a cavallo fra le province di Padova, Treviso e Venezia.
(Questi sono i libri che ricordo, ma sicuramente l'antico gioco sarà citato in molti altri volumi di storia locale).


                                                                                  

La guerra è finita, si ricomincia a giocare

Gara di borella a Monigo in programma domenica
16 settembre 1945 presso l'osteria Minello (Teoro).
(Il Gazzettino, 15 settembre 1945)

Gara di borella a Treviso, presso la bocciofila Altinia,
in programma domenica 1 settembre 1946 e
valida per il campionato provinciale 1946.
(Il Gazzettino, 28 agosto 1946)

Poeti in dialetto di Treviso
La copertina di Colpi de sol di
Gino Tomaselli - Cafè Nero (1903-1981)
contenente la poesia dedicata alla borella.
Sul poeta in dialetto veneto-trevigiano Tomaselli (che fu
anche addetto stampa del CLN nei giorni della Liberazione di Treviso) 
vedi il ritratto di Giorgio Renucci su Sportrevigiano del 28.11.2014.
Osteria, avventori e gioco della borella - Anni '60.
Foto Giuseppe Bruno in Ostarie de Marca di Adriano Favaro.
Giocatore di borella - Anni '60 (a borea) - 
Foto Giuseppe Bruno in Ostarie de Marca di Adriano Favaro.
Antico gioco de a borea / della borella - 
Aurelio Borsato, Vacil di Breda, 1937.
Serie di cinque foto di Luigino Smaniotto 

per un articolo di Camillo Pavan sulla borella. 
(Il Diario di Treviso, 27.8.1978)
Concentrazione ed eleganza nel lancio della pesante boccia
da parte di un anziano giocatore di borella. (Federico Danesin, 1912)
Antico gioco de a borea / della borella, in provincia di Treviso - 
La rincorsa e il lancio di un altro giocatore di borella.
Antico gioco de a borea / della borella, in provincia di Treviso - 
"Così si gioca alla borella" - Da Piccola enciclopedia del folclore 
trevisano: usi, costumi, tradizioni, di Giorgio Garatti;
con la collaborazione di Pier Alvise Busato. (1983)
Tre momenti di una gara del campionato 
di borella a Conscio di Casale TV,  marzo 1988
Catena di Villorba, Osteria "Da Coppi", Aprile 2008
Club Coppi di borella
Il gioco è finito.
Rievocazione del gioco della borella, settembre 2013.
In pedana Angelo Rossetto. (Foto di Luigino Smaniotto) 
Osservano il giocatore il figlio e il nipote di Lino Rossi
titolare dell'agriturismo Al Sile, dove si è svolta la rievocazione.



Nota del 31 marzo 2024

Ho visto in rete, nel sito Memoryscapes un raro filmato storico titolato Giocare a borelle girato nel 1928 da Aleardo Felisi a Tregnago (VR)
Pur con riprese che inquadrano la sola fase di lancio del són, si intuisce che si tratta dello stesso gioco di cui parliamo in questa pagina.
Il video ci permette così di allargare l'area di gioco della borella - almeno fino a una determinata data - anche al di fuori delle tre province "storiche" di Treviso Padova e Venezia. Indagine da fare... 

Lo hanno definito il bowling dei poveri - La "borella". Poche regole per fare un "San Martin"

Stampa trevigiana: giornale quotidiano "Il Diario di Treviso", 1978 - 
Articolo di Camillo Pavan su Il Diario di Treviso,
quotidiano di area socialista (corrente De Michelis)
diretto da Pietro Buttitta e pubblicato sul finire degli anni '70
nel capoluogo veneto. Il giornale, uscito nel 1978 pochi giorni prima di
"la Tribuna di Treviso", avrà vita effimera. Il più noto dei suoi
redattori fu il giornalista e scrittore Mirko Trevisanello.
TREVISO – «Certo, una volta era più diffusa, si giocava di più. D’altra parte nei paesi non c’erano che le osterie e dato che la macchina per andar in altre parti non c’era, nelle osterie ci si ritrovava». Raconta Aurelio Borsato di Vacil di Breda di 41 anni, artigiano edile con ancora addosso la «divisa» del suo lavoro: calzoncini corti, scarpe e maglietta schizzati di calce. «E l’osto che faceva affar[i] era, almeno dalle nostre parti, quello che aveva un buon campo di borella». «Inoltre è sempre stato diffuso perché è un gioco semplice, che non richiede né l’iscrizione alle società sportive né altre complicazioni burocratiche: basta essere in due amici e aver voglia di passare un’oretta», dice Felice Biffis.
Il gioco in effetti è di una semplicità elementare, anche se poi diventare un buon giocatore non è così facile. «Ci sono tre grossi birilli chiamati sóni in dialetto, alti una sessantina di centimetri, che devono essere abbattuti con una grossa palla di legno (che può pesare da cinque etti fino a un chilo e più, a seconda della forza e dell’abilità del concorrente), ci spiega Armando Menegazzi, che è un po’ lo storico della borella. Chi abbatte tutti e tre i sóni con una sola palla fa “San Martin”. Si tratta di un’espressione tipica dei contadini trevisani per indicare che tutto è stato rovinato, buttato per terra, distrutto, dopo una grandinata: xe sta un San Martin. Chi invece abbatte due sòni fa gambarèl che sta ad indicare come un són faccia sgambetto (sgamberèa) ad un altro. La distanza di lancio è di circa trenta metri».
«Ci vuol poco a capire che lanciare a trenta metri una palla di un peso simile non è cosa da tutti», ci spiega un baffuto operaio quarantenne di Nerbon di Silea, Esterino Cappellazzo. «Ci sono sere che giochiamo anche cinquanta palle. Qua ghe vol fòrsa, caro mio. El xe un xogo par òmani fàti, no par tosatèi e manco ancora par fémane!». [Qua ci vuol forza, caro mio. Questo è un gioco per uomini fatti, non per bambini e meno ancora per femmine!].
Sulla necessità di saper conciliare la forza e l’abilità si sofferma Giuseppe Padoan, 47 anni, guardia di PS, il quale inoltre sottolinea che la borèa è uno sport che appassiona e che difficilmente si abbandona. «Io per esempio ho cominciato a giocare nel ’44 e da allora appena posso vengo qui». Anche Federico Danesin che, con i suoi 66 anni, è un po’ il decano dei giocatori in attività a Nerbon, ci conferma che la borèa «ti prende ed appassiona».
Danesin, camicia a quadri, baffetti, cappello in testa che non abbandona neppure al momento del lancio della palla, ci dà una dimostrazione della sua abilità. Entra in pedana. Si concentra; guarda i sòni, lontani. Parte, correndo o meglio facendo una serie di balzi che ricordano un po’ la rincorsa per il lancio del giavellotto o, se si vuole, una danza rituale, propiziatoria. Poi il lancio potente. La palla a parabola.  Pochi secondi e cade sul sòn di mezzo, con precisione che per noi profani ha dell’incredibile. «E non mi è neppure andato tanto bene», dice con modestia Danesin.
Uno sport per uomini maturi, con larga presenza di anziani ed appassionati sostenitori. Uno sport in estinzione, quindi?
«No», ci conferma il ventiseienne Edo Scudeller da Conscio. «Al nostro paese, presso la trattoria Falcin, si gioca sempre. E ci sono gli uomini anziani e maturi ma ci sono anche tanti giovani». «Sì, vengono anche i giovani, però hanno un altro stile. Vengono sul tardi, dopo essere stati dalla morosa o al cinema. Poi si accaniscono e non andrebbero più via».
«E le donne?», chiediamo.
Ci guardano come fossimo gente molto strana. «Ma come, non lo ha ancora capito? Questo non è uno sport da donne!»  (1)


Con tutte le caratteristiche di uno sport
Un gioco radicato nella tradizione

TREVISO – È difficile risalire con precisione alle origini del gioco della borella e della sua diffusione nella Marca Trevigiana. Giorgio Garatti, nel volume Sports e giochi nella Marca Trevigiana riporta che le prime cronache risalgono all’ultimo decennio del secolo scorso, ma precisa che certamente le origini sono di molto anteriori. È insomma uno dei giochi più radicati nella nostra tradizione popolare e forse, proprio per questo, è sempre rifuggito da catalogazioni, regolamenti ufficiali, regolari tornei agonistici da far passare alle cronache con la precisione dei loro risultati.
«Mio padre ha più di settant’anni, dice il trentaquattrenne Armando Menegazzi da Vacil, giocatore di borella (burèa come viene chiamata al suo paese) fin da ragazzo, e gioca ancora: mio nonno è morto ad 84 anni e già lui la conosceva e giocava».
Sport, perché dello sport ha tutte le caratteristiche: richiede infatti resistenza, prestanza fisica, allenamento e passione. Ma soprattutto passatempo: un modo di trascorrere le serate in compagnia degli amici, all’osteria che, nei paesi di campagna, soprattutto prima dell’avvento dell’automobile e della televisione, era l’unico punto di ritrovo. Si ordina il litro di vino (chi perde paga) si scambiano quattro chiacchiere, si dimentica la fatica del lavoro quotidiano.
Qualcuno paragona la borella al bowling.
Ma non c’è dubbio che, per chi la conosce, la borèa (o burèa, a seconda delle zone) ha un suo rustico fascino, fatto di cose sane, grezze, ben ancorate alla propria realtà e alla propria storia che non possono che far relegare il bowling al rango di sua volgare imitazione plastificata.
D’altra parte il giocatore di borella è soprattutto il contadino, l’operaio, il piccolo artigiano. Ama gli spazi liberi, l’aria pura. Mal si adatterebbe alle fumose, anonime, assordanti sale da gioco.
Camillo Pavan, Il Diario di Treviso
Domenica 27 - lunedì 28 agosto 1978 


(1) A tal riguardo proponiamo un divertente brano tratto dall'articolo “Biglie e figurine sulla strada dei giochi” apparso su la Repubblica del 18 settembre 2005, a cura di Michele Smargiassi.
«Le donne e i birilli — Oggetto antropologico anomalo, ingovernabile, imprevedibile, il gioco libero incute soggezione e rispetto. Il gioco diverte, ma non fa mai ridere. Anzi: può far tremare. Quando le donne di Campo, Aragona, mollano le faccende domestiche esclamando «¡En de chugà los birilles!» (vado a giocare a birilli!), i maschi di famiglia rabbrividiscono ma non osano fermarle. I birilli sono l’unico gioco ad essere riservato in molte comunità esclusivamente alle donne: gruppi di amazzoni del paleo-bowling esistono in mezza Europa, una anche a Farigliano, in Piemonte, e se guardi i loro birilli capisci l’angoscia dei mariti: allungati, dalla grossa punta, decisamente fallici, vengono abbattuti senza pietà a colpi di palle di legno. Sublimata quanto volete, ma sempre di castrazione si tratta. Diciamocelo: il gioco di strada è appassionante, magico, suggestivo, ma va maneggiato con cura. Mica è roba da bambini».


lunedì 3 novembre 2014

Oasi di Cervara (Parco del Sile). Origine e storia - 1984/2014 - nel racconto del suo "padre nobile" Giorgio Libralato

Trascrizione integrale dell'intervista effettuata il primo di agosto del 2014 presso l'abitazione di Libralato, 
sede dell'Associazione Cultura e Tradizione Contadina, Santa Cristina di Quinto - Treviso.

Guarda il video su YouTube

Giorgio Libralato - fondatore Oasi Cervara Santa Cristina di Quinto 
(Treviso) - a fianco di un Super Landini (1939) della sua collezione.

- Non è una battuta dire che sei il padre fondatore dell'Oasi. 
L’iniziativa sicuramente è partita da me, perché io ho fatto il diavolo a quattro in Comune.
Ho avuto la fortuna nel 1975 di entrare in amministrazione comunale a Quinto e di avere anche la forza di poter trattare. Con il mio sindaco Favaro Luigi, una bravissima persona, corretta e disponibile, ma condizionato da altre forze all'interno della DC - perché c’erano tante correnti - questo affare non si sarebbe mai fatto. 
Pian pianino lavorando all'inizio anni '80 (assieme a Carla Puppinato) con il mondo della scuola media ed elementare, sensibilizzando sull'ambiente, eccetera, siamo arrivati al 1984, anno in cui stava per essere venduta quell'area e comprata per creare un’ulteriore peschiera [allevamento ittico, troticoltura] e la palude sarebbe sparita. 
Io, come amministratore, assessore all'ecologia e vicesindaco, ho detto: «No, dobbiamo salvare questo francobollo che è l’ultimo ad essere rimasto ancora intonso, integro. Quindi dobbiamo tenerlo stretto». Con il sindaco abbiamo fatto un po' di braccio di ferro perché lui temeva l’opposizione interna, più che esterna, e siamo arrivati al 19 aprile 1984. Facciamo l'incontro con Bortolo Salvador che era il proprietario dell’area. Salvador aveva acquistato tutti gli appezzamenti di palude che prima erano di tanti proprietari: ha avuto il merito di metterli tutti assieme e poi aveva iniziato a fare i ponti per poter avere l'accesso a questa area. 
A questo punto dapprima noi abbiamo bloccato i lavori e non abbiamo dato l’autorizzazione; poi i Durigon, quelli che volevano comperare e quelli che sono stati i miei persecutori per vent'anni, si sono messi di traverso e non hanno fatto entrare Salvador. E questo è stato un merito dei Durigon, che senza volerlo ci hanno dato una mano.
Perché Bortolo Salvador cosa ha detto? «Io non vendo a chi mi fa la concorrenza»; sapeva che la spregiudicatezza di questa famiglia sarebbe arrivata al dunque lo stesso, cioè a realizzare la peschiera, perché con le “benedizioni” che aveva alle spalle, con la determinazione che aveva con i tanti figli - parte di palude, un piccolo appezzamento lo possedevano già loro di famiglia - avrebbero sicuramente raggiunto l'obiettivo.
Però ci siamo messi di traverso noi come amministrazione comunale e Bortolo Salvador che ha saputo questa cosa ha detto «piuttosto di vendere alla concorrenza è meglio che venda al Comune». 
Quindi abbiamo comprato noi e abbiamo fatto il preliminare il 19 aprile 1984: io, il segretario comunale e Luigi Favaro; intanto che stavamo facendo il preliminare abbiamo chiamato l'assessore Carla Puppinato, così eravamo in tre della giunta. 
- Dicevi che c'erano contrasti interni. 
Sì, perché i dorotei non avrebbero mai acconsentito, perché erano coltivatori diretti, proteggevano quelli che volevano fare la peschiera, avevano altri interessi, altri fini. 
- La produttività. 
Esatto, e poi anche c’erano i due campanili: Quinto e Santa Cristina. [Libralato a questo punto dell’intervista passa in rassegna gli antichi motivi di divisione campanilistica fra le varie frazioni del comune di Quinto].
- Restando al caso specifico della peschiera vi siete ritrovati con questa contrapposizione. 
All'interno della maggioranza, la Democrazia Cristiana, c'erano i fanfaniani che facevano capo a me e al sindaco e c'erano i dorotei che facevano capo a Bepi Sartor e ad altri. E questi non avrebbero mai approvato. Avevamo contrari sia i socialisti che i comunisti e la Lega, e quindi mai avremmo comperato.
Salvatore Santangelo, che era capogruppo del PCI a quel tempo, ha detto che queste cose doveva farle la regione, perché erano cose di livello regionale: bella l'idea, tutto bello, però con i soldi del comune di Quinto si dovevano fare altre cose. Ma se noi aspettavamo la Regione Veneto, campa cavallo… e l'Oasi di Cervara non sarebbe stata salvata. Oasi di Cervara che, nell'idea dei più illuminati della provincia di Treviso doveva diventare una “riserva orientata”, e si parlava di Quinto, Morgano, Istrana, Vedelago e Piombino Dese, in provincia di Padova, se voleva starci.
Poi quando siamo arrivati agli anni '90, che in Regione cominciava a montare la storia dell'ecologia e che i voti si cominciavano a prendere da quella parte, l'assessore regionale Marchetti ha sollevato la questione con Bernini, si è messo d’accordo con Bernini e nell'ultima seduta del 1990, hanno detto: «O facciamo tutto il Parco del Sile o non se ne fa nulla. Quindi dobbiamo partire dalle sorgenti e arrivare in laguna». Ecco che nel 1991, con la legge n. 8, viene istituito il Parco del Sile. 
- Restiamo a questo momento cruciale. Tu ti sei impuntato contro l'opposizione interna del tuo partito… 
Certo. Per questo li abbiamo messi di fronte al fatto compiuto. 
- È stato un po' un colpo di mano, insomma. 
Certo, e poi siamo andati in pre-consiglio. Oh, cose che non ci mangino! Eugenio Manzato per primo, Luigino Marangon… 
- Il professor Manzato? 
Sì. 
- Se la sono presa perché? 
Perché non li avevamo messi al corrente, perché così, perché colà. Se noi li mettevamo al corrente, quelli lì spifferavano ed era finita la storia. 
- Invece voi avete preparato tutto… 
Abbiamo dovuto fare una cosa alla KGB. In senso buono, ovviamente. 
- In questa maniera vi siete guadagnati un posto nella storia! Siete stati i primi a salvaguardare il fiume in maniera reale.
 Io non ho mai cercato posti nella storia, perché la storia si fa da sé.
 - Certamente. Ma piuttosto che avere un allevamento di trote è meglio che la palude sia stata salvaguardata.
Io ho dei ricordi bellissimi. Mio padre andava a caccia lì, mio padrino Giovanni aveva casa lungo il fiume Sile, e barca, e lui viveva di caccia e di pesca - oltre che dei suoi beni - e tante volte io andavo in barca assieme a lui. Poi avevo un altro cugino che era un bravissimo pescatore di temoli e delle volte mi ha portato in posti in cui nessuno mi aveva mai portato. E ho capito, ma avevo dieci-undici anni, che il posto era meraviglioso e che doveva essere salvaguardato. 
- Al di là di tutte le traversie che hai avuto, un giudizio spassionato, adesso, a trent'anni dall'inizio dell'avventura. 
Abbiamo messo in cassaforte un qualcosa che non è né valorizzato né utilizzato. 
- E sì che vedo tantissime persone che frequentano l'Oasi. 
Sì, però, oltre all'Isola, che cosa c'è? E poi l'Oasi è veramente in mano giuste?
 - Non so neppure di chi “sia in mano”. 
E qua mi fermo.
Il Parco, per me, deve essere un fiore all'occhiello dove la gente si “riscontra”; che viene mantenuto come negli anni '60; che è fonte di bene e di progresso e non un ricettacolo come quando l’abbiamo preso in mano o forse anche peggio. Chiudo.
 - Quindi un giudizio piuttosto netto e non positivo.
Non è stato fatto nulla a parte scrivere carte e fare ponticelli e altre piccole cose, e non sempre dove servono. Andiamo, il Parco è un'altra cosa! Va bene che la politica ha altri obiettivi ma… 
- … lo spirito e la passione che avevate voi all’inizio… 
Io non voglio che nessuno debba patire quello che ho patito io e che debba fare quello che ho fatto io, però credo che se abbiamo un tesoro debba essere valorizzato; e se non è un tesoro che si lasci andare per la sua strada.
- Così com'è non è valorizzato.
Non è né questo né quello, siamo ancora in mano alle pastoie politiche, alla burocrazia. Abbiamo scritto fiumi di carta, ci sono montagne di documentazione, ci sono idee e aspettative infinite, ma [sono] là. 
- Ho visto che hanno lasciato costruire in certe zone.
Non so, ci sono dei comuni che non possono e altri che possono tutto: Treviso ad esempio ha costruito dappertutto. E perché Quinto non può, Morgano non può … che politica è questa qua? Il Parco c'è o non c'è? O è fatto a luci e ombre. Io non lo so, perché non ho in mano gli strumenti e quindi dico “non lo so”, però a lume di naso dico così; però non ho il vangelo io, in tasca. 
- Diciamo che lo spirito dell'84 non c'è, non lo vedi.
 Noi eravamo motivati dalla passione e non è detto che tutti debbano avere la passione, però voler bene al proprio territorio, almeno quello, sì. Sennò, se [il Parco] è solo per angariare la gente non va bene; o solo per fargli tirare la volata ai soliti noti e ai soliti furbi…
Spegni quel robo là. Spegnilo!
È spento? Bene.

Locandina dell'ultima edizione 
(maggio - giugno 2014) di
Memorie sull'aia e il futuro dedicata alla 
emigrazione e organizzata
dall'Associazione Cultura e Tradizione
Contadina
, altra "creatura" - oltre all'Oasi di Cervara -  

di Giorgio Libralato (S. Cristina di Quinto Treviso).
Alle quattro serate hanno partecipato: Gruppo
Musicale Cantalora di Feltre, Amerigo
Manesso, Mario Marangon, Luigino Scroccaro 
(coordinatore degli incontri), 
Claudio Baldo ed Emanuele Bellò .


                                                              


Barca, barca del Sìe, barca da paƚù, cassèa da morto e pantana

Nel corso dell'intervista, una digressione è riservata al nome della barca a fondo piatto utilizzata nel Sile e nella palude di Santa Cristina. 
 - Mi nominavi questa barca. Una questione etimologica: come la chiamavate? 
Niente: “a barca del Sìe”, “a barca” “a cassa da morto” “a cassèa da morto”. “A cassèa da morto” perché ha un senso … [ricorda una bara].
- Ma la chiamavate così, all'epoca?
Sì, sì: “e xe cassèe da morto”, si diceva anche così, certamente.
- Da dove salta fuori questo nome “pantana”?
Pantana. Per i più colti, per i signori che venivano ... chiamarla “cassèa da morto”, chiamarla “a barca”, non era una roba corretta, fine. E loro che erano più eruditi, che scivolavano sul fango, su poca acqua, le hanno dato il nome “la pantana”. Per questo viene sempre messa tra virgolette e questa parola etimologicamente non è mai stata classificata da chi fa i vocabolari. 
Questi nobili le hanno dato il nome di “pantana”. Nobili veneziani, nobili trevisani, i signori che bazzicavano il corso del fiume Sile: questa è la storia che noi conosciamo. 
- Ma il nome più diffuso era?
“A barca da paƚù”, “a cassèa da morto”!


La barca a fondo piatto dell'alto corso del Sile
Barca, barca da palù, cassèa da morto o pantana?