giovedì 27 novembre 2014

Lo hanno definito il bowling dei poveri - La "borella". Poche regole per fare un "San Martin"

Stampa trevigiana: giornale quotidiano "Il Diario di Treviso", 1978 - 
Articolo di Camillo Pavan su Il Diario di Treviso,
quotidiano di area socialista (corrente De Michelis)
diretto da Pietro Buttitta e pubblicato sul finire degli anni '70
nel capoluogo veneto. Il giornale, uscito nel 1978 pochi giorni prima di
"la Tribuna di Treviso", avrà vita effimera. Il più noto dei suoi
redattori fu il giornalista e scrittore Mirko Trevisanello.
TREVISO – «Certo, una volta era più diffusa, si giocava di più. D’altra parte nei paesi non c’erano che le osterie e dato che la macchina per andar in altre parti non c’era, nelle osterie ci si ritrovava». Raconta Aurelio Borsato di Vacil di Breda di 41 anni, artigiano edile con ancora addosso la «divisa» del suo lavoro: calzoncini corti, scarpe e maglietta schizzati di calce. «E l’osto che faceva affar[i] era, almeno dalle nostre parti, quello che aveva un buon campo di borella». «Inoltre è sempre stato diffuso perché è un gioco semplice, che non richiede né l’iscrizione alle società sportive né altre complicazioni burocratiche: basta essere in due amici e aver voglia di passare un’oretta», dice Felice Biffis.
Il gioco in effetti è di una semplicità elementare, anche se poi diventare un buon giocatore non è così facile. «Ci sono tre grossi birilli chiamati sóni in dialetto, alti una sessantina di centimetri, che devono essere abbattuti con una grossa palla di legno (che può pesare da cinque etti fino a un chilo e più, a seconda della forza e dell’abilità del concorrente), ci spiega Armando Menegazzi, che è un po’ lo storico della borella. Chi abbatte tutti e tre i sóni con una sola palla fa “San Martin”. Si tratta di un’espressione tipica dei contadini trevisani per indicare che tutto è stato rovinato, buttato per terra, distrutto, dopo una grandinata: xe sta un San Martin. Chi invece abbatte due sòni fa gambarèl che sta ad indicare come un són faccia sgambetto (sgamberèa) ad un altro. La distanza di lancio è di circa trenta metri».
«Ci vuol poco a capire che lanciare a trenta metri una palla di un peso simile non è cosa da tutti», ci spiega un baffuto operaio quarantenne di Nerbon di Silea, Esterino Cappellazzo. «Ci sono sere che giochiamo anche cinquanta palle. Qua ghe vol fòrsa, caro mio. El xe un xogo par òmani fàti, no par tosatèi e manco ancora par fémane!». [Qua ci vuol forza, caro mio. Questo è un gioco per uomini fatti, non per bambini e meno ancora per femmine!].
Sulla necessità di saper conciliare la forza e l’abilità si sofferma Giuseppe Padoan, 47 anni, guardia di PS, il quale inoltre sottolinea che la borèa è uno sport che appassiona e che difficilmente si abbandona. «Io per esempio ho cominciato a giocare nel ’44 e da allora appena posso vengo qui». Anche Federico Danesin che, con i suoi 66 anni, è un po’ il decano dei giocatori in attività a Nerbon, ci conferma che la borèa «ti prende ed appassiona».
Danesin, camicia a quadri, baffetti, cappello in testa che non abbandona neppure al momento del lancio della palla, ci dà una dimostrazione della sua abilità. Entra in pedana. Si concentra; guarda i sòni, lontani. Parte, correndo o meglio facendo una serie di balzi che ricordano un po’ la rincorsa per il lancio del giavellotto o, se si vuole, una danza rituale, propiziatoria. Poi il lancio potente. La palla a parabola.  Pochi secondi e cade sul sòn di mezzo, con precisione che per noi profani ha dell’incredibile. «E non mi è neppure andato tanto bene», dice con modestia Danesin.
Uno sport per uomini maturi, con larga presenza di anziani ed appassionati sostenitori. Uno sport in estinzione, quindi?
«No», ci conferma il ventiseienne Edo Scudeller da Conscio. «Al nostro paese, presso la trattoria Falcin, si gioca sempre. E ci sono gli uomini anziani e maturi ma ci sono anche tanti giovani». «Sì, vengono anche i giovani, però hanno un altro stile. Vengono sul tardi, dopo essere stati dalla morosa o al cinema. Poi si accaniscono e non andrebbero più via».
«E le donne?», chiediamo.
Ci guardano come fossimo gente molto strana. «Ma come, non lo ha ancora capito? Questo non è uno sport da donne!»  (1)


Con tutte le caratteristiche di uno sport
Un gioco radicato nella tradizione

TREVISO – È difficile risalire con precisione alle origini del gioco della borella e della sua diffusione nella Marca Trevigiana. Giorgio Garatti, nel volume Sports e giochi nella Marca Trevigiana riporta che le prime cronache risalgono all’ultimo decennio del secolo scorso, ma precisa che certamente le origini sono di molto anteriori. È insomma uno dei giochi più radicati nella nostra tradizione popolare e forse, proprio per questo, è sempre rifuggito da catalogazioni, regolamenti ufficiali, regolari tornei agonistici da far passare alle cronache con la precisione dei loro risultati.
«Mio padre ha più di settant’anni, dice il trentaquattrenne Armando Menegazzi da Vacil, giocatore di borella (burèa come viene chiamata al suo paese) fin da ragazzo, e gioca ancora: mio nonno è morto ad 84 anni e già lui la conosceva e giocava».
Sport, perché dello sport ha tutte le caratteristiche: richiede infatti resistenza, prestanza fisica, allenamento e passione. Ma soprattutto passatempo: un modo di trascorrere le serate in compagnia degli amici, all’osteria che, nei paesi di campagna, soprattutto prima dell’avvento dell’automobile e della televisione, era l’unico punto di ritrovo. Si ordina il litro di vino (chi perde paga) si scambiano quattro chiacchiere, si dimentica la fatica del lavoro quotidiano.
Qualcuno paragona la borella al bowling.
Ma non c’è dubbio che, per chi la conosce, la borèa (o burèa, a seconda delle zone) ha un suo rustico fascino, fatto di cose sane, grezze, ben ancorate alla propria realtà e alla propria storia che non possono che far relegare il bowling al rango di sua volgare imitazione plastificata.
D’altra parte il giocatore di borella è soprattutto il contadino, l’operaio, il piccolo artigiano. Ama gli spazi liberi, l’aria pura. Mal si adatterebbe alle fumose, anonime, assordanti sale da gioco.
Camillo Pavan, Il Diario di Treviso
Domenica 27 - lunedì 28 agosto 1978 


(1) A tal riguardo proponiamo un divertente brano tratto dall'articolo “Biglie e figurine sulla strada dei giochi” apparso su la Repubblica del 18 settembre 2005, a cura di Michele Smargiassi.
«Le donne e i birilli — Oggetto antropologico anomalo, ingovernabile, imprevedibile, il gioco libero incute soggezione e rispetto. Il gioco diverte, ma non fa mai ridere. Anzi: può far tremare. Quando le donne di Campo, Aragona, mollano le faccende domestiche esclamando «¡En de chugà los birilles!» (vado a giocare a birilli!), i maschi di famiglia rabbrividiscono ma non osano fermarle. I birilli sono l’unico gioco ad essere riservato in molte comunità esclusivamente alle donne: gruppi di amazzoni del paleo-bowling esistono in mezza Europa, una anche a Farigliano, in Piemonte, e se guardi i loro birilli capisci l’angoscia dei mariti: allungati, dalla grossa punta, decisamente fallici, vengono abbattuti senza pietà a colpi di palle di legno. Sublimata quanto volete, ma sempre di castrazione si tratta. Diciamocelo: il gioco di strada è appassionante, magico, suggestivo, ma va maneggiato con cura. Mica è roba da bambini».


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